Ultimo appuntamento con Davide Dotto e il Ponte delle Vivene

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Per l’ultimo appuntamento con il nostro special guest di novembre, Davide Dotto, vi proponiamo un articolo sulle favole che l’autore ha gentilmente condiviso con noi.

QUANDO LE FAVOLE SONO VERE.

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De te fabula narratur, dice Orazio nelle Satire. Come a dire che la storia raccontata in qualche modo parla di chi e a chi la ascolta. Immaginata o inventata che sia, la favola ha un nucleo di verità da non sottovalutare. In questo senso può e deve dirsi vera. Italo Calvino scriveva che le fiabe sono vere, sono il catalogo dei destini che possono darsi un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi destino (Sulla fiaba).

Se ciò non bastasse, Jorge Luis Borges in una conversazione radiofonica si esprimeva così:
è necessario che uno scrittore che scrive una favola, per quanto fantastica possa essere, creda, sul momento, alla realtà della favola.

Per altri versi le fiabe sono vere perché sono la rappresentazione della realtà, attribuiscono nomi e descrivono il mondo circostante, interpellandolo e traducendolo.
Le fiabe raccontano storie che fanno emergere relazioni di causa ed effetto tra eventi consueti o inconsueti, ricorrenti o non ricorrenti. Sotto certi aspetti precedono il mito, alimentano la memoria collettiva e tramandano un insegnamento. Paradossalmente è proprio il racconto fiabesco a riportarci con i piedi per terra.
Sul punto Italo Calvino ha molto da dire. Già nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno il tono fiabesco permette una visione verticale della realtà, quella distanza che consente di guardare lontano, evitando l’accettazione supina di un certo stato di cose: qui è la voce di Pin a fare la differenza, individualista quanto basta per rompere gli schemi che non consentirebbero di entrare nel profondo.

La distanza non deve essere tale da perdere qualsiasi contatto con l’universo che ci riguarda. Il alberi-le-tazzine-di-yokoclassico mondo delle fiabe è sì popolato di fate (da cui il termine fairy tales) che da secoli, se non da millenni, popolano l’immaginario collettivo. Tuttavia la loro presenza non è il solo elemento di una fiaba: non basta, non è sufficiente.

Certo, le cose cambiano se consideriamo in che modo le fiabe della tradizione popolare siano state, nel corso delle generazioni, riscritte, adattate, letteralizzate fino a ribaltarne il senso originario.

Quando le fairy tales (e i suoi personaggi) sono relegate e impacchettate in un genere di consumo al quale avvicinarsi di tanto in tanto, è inevitabile che perdano la nota sovversiva che le è propria. Si distaccano dalla realtà smettendo di osservarla e, soprattutto, di giudicarla, allontanandosi da noi che la abitiamo: il de te fabula narratur non vale più.
Non parlano di noi, ma d’altro, lasciando prevalere l’evasione fine a se stessa, il divertimento nel senso etimologico del termine (da divèrtere/ diverso, volgersi altrove, in altro luogo), distogliendo l’attenzione da qualcosa.

È bastato, credo, il salto di poche generazioni perché il c’era una volta si allontanasse dal nostro panorama, spezzando irrimediabilmente il filo che ci legava a esso. Non solo l’immaginario è più povero, il fatto è che le creature di cui si parlava un tempo ci sono divenute estranee. Ci sono rimaste caricature, esseri di carta o di celluloide con tanto di marchio di fabbrica.
Si provi solo a chiedere in giro se qualcuno ha mai sentito parlare delle mari de gnot (madri delle notte), di vivàne, di anguane, di fade, dei luoghi in cui queste figure si sono radicate.

Concludendo, le fairy tales sono una cosa seria, non esprimono un altrove di comodo in cui donna-nel-bosco-le-tazzine-di-yokoparcheggiare ciò che non trova posto nel nostro mondo. Questo altrove semplificato non ci appartiene affatto. Eppure diventa sempre più affollato: abitato in origine da Alice nel paese delle meraviglie, o dalle creature incontrate da Gulliver nel corso dei suoi viaggi. Paradossalmente questi ultimi esempi non sono fiabe perché sin da subito non vengono presentate come vere. La cosa è spiegata in modo chiaro nientemeno che da J.R.R. Tolkien nel saggio Sulle fiabe: nulla e nessuno deve far pensare che ciò che la fiaba racconta sia illusione o finzione.

Il problema di fondo, forse, è questo: si provi solo a immaginare cosa accadrebbe se popolassimo ancora la nostra dimensione di streghe, maghi, gnomi, fate. Oppure: delle panas, dei nani, delle janas cui accenna Grazia Deledda in una pagina di Canne al Vento. Ne avremmo timore, verremmo colti da un senso di profondo disagio. Non saremmo in grado di giustificare queste creature, che ruolo (e quale luoghi) assegnare loro. Faremmo presto ad attribuire a esse una natura maligna senza lasciare il tempo di domandarci che fine abbiano fatto la loro casa, le loro foreste, i loro fiumi. Le esorcizzeremmo, attueremmo un respingimento verso un altrove che non conosciamo e al quale esse non appartengono.

Ringraziamo l’autore per aver condiviso questo interessante articolo con noi, tra pochi giorni vi diremo chi ha vinto una copia del suo libro!

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2 Comments
  • Luigi Dinardo
    11 Dicembre, 2016

    non lo conoscevo. interessante.

  • Debby
    11 Dicembre, 2016

    Interessante articolo, in alcuni punti sono in disaccordo però. Come quando dice che avremmo timore di popolare ancora la nostra dimensione di streghe etc sinceramente penso che basti solo inventiva

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